Come raccogliere le storie individuali per le virtual room?




Decidiamo di iniziare le attività con le storie lavorando con persone che già conosciamo: quelle persone che hanno già partecipato con noi ad attività didattiche, dove hanno intrecciato momenti di espressione dei vissuti, di ascolto e di racconto, con altri di ragionamento, di elaborazione di contenuti e di sviluppo di competenze specifiche, nei contesti scolastici ordinari, durante lezioni laboratori. Fra loro ci sono sia persone che stanno per rientrare nella comunità sociale, sia detenute che stanno disponendosi a trascorrere in prigionia anni di vita dando un senso costruttivo al loro stare, sia altre che affrontano tempi lunghi di detenzione.
Il nostro obiettivo non è il racconto soggettivo della vita, ovvero di tutta la vita, non è quindi la redazione di un'autobiografia, ma è invece una storia, un racconto circoscritto finalizzato per il/la detenuto/a in particolare a:
  • far emergere il racconto soggettivo delle ragioni per cui ci si trova in prigione;
  • individuare la catena di eventi che ha generato la condizione di prigionia;
  • progettare il cambiamento ed il proprio futuro.
Dopo aver condiviso la motivazione e il senso di STEPs, in un ambiente protetto dalle interruzioni, l'insegnante e la persona ristretta, a poco a poco, si dispongono alla confidenza e all'ascolto.
Si incontrano tutte le volte necessarie, stabilite mano a mano. L’insegnante prende appunti e al termine di una sequenza li rilegge e insieme si modificano. A volte l'insegnante riscrive il racconto orale in forma schematica e in un successivo incontro lo rielaborano insieme in una attenta pratica di correzione e riscrittura. La riscrittura insieme è il lavoro più delicato e richiede tempo, ascolto attento e una cornice chiara, confini esplicitati.
Il tempo fra un incontro e l'altro permette alle emozioni di depositarsi e consente ad entrambi, studente e insegnante, di prendere una certa distanza che permetta di riconoscere se ci sono state forzature o fraintendimenti nella storia.

E' indispensabile la fiducia reciproca. 
Ogni racconto di vita nasce infatti all'interno di una forte relazione educativa, sperimentata e consolidata nel tempo, in un rapporto empatico diretto, coltivato e protetto dall'insegnante, in posizione maieutica verso chi si dispone ad imparare. 
Nel piacere di imparare cose nuove, nella valorizzazione del processo di apprendimento, nel successo formativo crescono e si sviluppano la fiducia, il riconoscimento reciproco, nonostante l'asimmetria della relazione fra insegnante e studente, quotidianamente raddoppiata dalla divisione fra chi va via e chi resta ogni giorno in carcere.
Il racconto di sé in particolare nel contesto carcerario, richiede la certezza della presa in carico, dell’interesse autentico da parte della persona più forte e la fiducia che il contenuto personale del racconto non verrà ignorato, esibito, giudicato o tradito.
Lo spazio della relazione educativa è garantito dall'insegnante: è diverso da quello della confidenza personale, della psicoterapia, della confessione religiosa o giudiziaria. 
E' caratteristico dell'imparare: docente e discente si dispongono e cooperano per raggiungere obiettivi comuni definiti, che si traducono nei termini del saper fare e del conoscere cose nuove. Per poterlo fare hanno bisogno di capirsi, di stare bene insieme, di sentirsi accolti e non giudicati, di trovarsi bene, in un rapporto di collaborazione empatico e solidale.

Inoltre nel dirsi, nel raccontarsi, ciascuno sta anche interpretando una parte e a volte chiede consenso: si vede dal corpo, dal linguaggio, dagli atteggiamenti oltre che dal senso delle frasi. Allo stesso modo con il corpo, gli atteggiamenti e le parole, l'insegnante rimanda quanto ascolta e lo riformula, non soltanto al fine di verificare la propria effettiva e piena comprensione della storia, ma anche per disporre colui che narra come dinanzi a uno specchio che gli mostri l’immagine che offre di sé agli altri e di cui, molto spesso, non è consapevole: offre metafore, precisa o amplia il senso, favorisce l’espressione dei vissuti, sostenendo così il difficile processo di riconoscimento e di ri-definizione di se stessi che il trauma della carcerazione comporta.

La relazione educativa che consente il narrarsi richiede radici e responsabilità educative esplicitate, chiare e già sperimentate; solo in tale caso il lavoro con il materiale autobiografico diviene uno strumento per il processo di comprensione delle proprie scelte e per il cambiamento, un dispositivo per la cura del sé. Da un lato della relazione si trova chi ascolta, l'insegnante che agisce come levatrice del racconto, capace di sostenere il dire dell'altro/a, con interventi empatici di rinforzo e di rispecchiamento, con domande tese a far emergere il non detto, il non ancora pensato, aiuta a riprendere il filo, sostiene le emozioni, ma non giudica, non anticipa mai, non termina le frasi di chi narra, non analizza, non interpreta. Mai.
La questione della lingua è cruciale: quanto va perduto senza poter ascoltare le parole delle persone straniere in lingua madre?
Eppure nel desiderio e urgenza di trovare espressione e parole in una lingua straniera, la stessa in cui si è immersi dalla mattina alla sera, il pensiero a volte si chiarisce anche a se stessi.
Nel processo del racconto spontaneo capita che si produca un’apertura imprevista, uno scarto fecondo, un ricordo buffo, un pensiero nuovo... 
Entrano in gioco i desideri, le emozioni, i sentimenti e il mondo fuori che si è lasciato e sta come sospeso e allora, qualche volta si può ascoltare quello che la persona spera e desidera, quello che voleva veramente e le illusioni che l'avevano guidata.

Il racconto è da bocca a orecchio, corpo, sguardi; richiede complicità empatica al di là del giudizio che resta sospeso altrove; l'ascoltare lega chi sta cercando di spiegare a se stessa cosa è accaduto e cerca le parole per dirlo, in un farsi del discorso spesso frammentato, in lingua straniera, dove si adombrano sofferenze, dolori, conflitti, paura e desiderio di dire e di non dire.

Chi ascolta sospende il giudizio su quanto viene detto e confidato, senza giustificare il reato, non giudica i comportamenti, si dispone dalla parte di chi, mentre si narra, si sta cercando, e cerca di capirsi. Il giudizio resta estraneo al contesto narrativo, appartiene ad altri ambiti ed attività scolastiche e sociali diverse, la sua sospensione, attiene al tempo della narrazione autobiografica.
Altre forme di attenuazione del giudizio, via via differenti, accompagnano i processi di comprensione, di autovalutazione, di assunzione di responsabilità , di presa di coscienza.

Il lavoro autobiografico è attività lenta e delicata, che richiede momenti di sosta e di sedimentazione.
E’ sostenuto e facilitato da momenti espressivi e dal supporto di altri linguaggi - come il disegno, il canto, l’arte, l'espressione corporea - e dallo spazio di lavoro, che nel nostro caso al carcere femminile a volte è anche all'aperto nell'azienda agricola, dove possiamo fare esperienze e osservare fenomeni, cantare, camminare e sedere insieme fra cespugli e alberi da frutto.

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