La valigia degli attrezzi III di Piero Schiavo

 La valigia degli attrezzi III – il gruppo

 

 

 

Nelle scienze, soprattutto in quelle umane e sociali ma non solo, ci si interroga spesso su quanto la presenza del ricercatore possa influenzare la raccolta dei dati o l’esperienza che si sta analizzando, il ricercatore essendo portatore, suo malgrado, di idee, interessi, limiti e prospettive che ne condizionano o ne dirigono lo sguardo.

Di sicuro anche la nostra ricerca di storie personali e di progetti innovativi è stata condizionata più o meno pesantemente e più o meno consapevolmente dalla nostra sensibilità e dai nostri interessi (perché questa innovazione e non altre? Perché proprio la storia di questa persona? E quanto il mio domandare ha in qualche modo guidato la narrazione?), o semplicemente dal nostro più elementare essere-in-situazione, nonostante i sinceri sforzi di neutralità e di auto-annullamento realizzati a partire da una metodologia consapevole e strutturata dell’ascolto. Ce lo aveva mostrato egregiamente Friedrich Munro in Lisbon Story: non basta una telecamera accesa dietro alla schiena per consentire alle cose di narrarsi da sé, senza che nel loro mostrarsi resti qualche traccia di noi.

Ma a prescindere da tutto ciò, la domanda che è invece sorta in una delle riunioni dello staff, e che ha innescato una riflessione tanto inattesa quanto feconda, è una domanda che potremmo definire “di segno opposto”: quanto io ricercatore sono stato influenzato, o addirittura cambiato, dalla mia ricerca? Quali sono state le ricadute di questo progetto sulle mie idee, sui miei interessi, sui miei limiti e sulle mie prospettive? Insomma, al quasi termine di questo lavoro, mi riconosco più o meno identico al mio me che vi aveva aderito e che lo aveva iniziato?

Prima di rispondere a questi interrogativi spiazzanti – non forse per la loro originalità, quanto piuttosto per la loro gratuità rispetto alle consegne richieste dal progetto – abbiamo deciso di concederci del tempo per rifletterci, per poi sottoporci, rassicurati dall’anonimato, a una breve intervista ideata ad hoc sul tema in questione.

Da essa è emerso, ad esempio, la pressoché comune scoperta dell’importanza del tempo e dello spazio. Un tempo inteso come tempo dell’ascolto, del ricordo e della rielaborazione personale; tempo del coraggio di parlare (operazione che a volte risulta immediata e urgente, altre volte, invece, richiede maturazione e ricerca il suo momento opportuno); tempo delle pause e dei silenzi sempre da rispettare; ma anche tempo sottratto alla ripetitività del carcere, tempo della scrittura e riscrittura, della cooperazione, tempo della fiducia da creare tra docente e discente. Un tempo così tanto importante che spesso è stato necessario “perdere tempo” – ha confessato una collega – per creare un’apertura, uno scambio, una rottura della diffidenza che fa spesso scudo a sinceri rapporti umani.

E poi lo spazio, uno spazio tutt’altro che omogeneo e “scientifico” (o “didattico”, ha sottolineato qualcuno), ma multiforme: ora il rettangolo della finestra, ora la linea dell’orizzonte; ora il cerchio dell’intimità e della condivisione – lo spazio protetto della confidenza –, ora invece l’ostacolo del foglio, che a volte può inibire per la difficoltà implicita nella ricerca delle parole giuste da non dire, o altre volte può apparire riduttivo e incapace di accogliere le tante parole che si vorrebbero invece dire. Uno spazio che qualcuno ha pensato non soltanto di esplorare, ma anche di riformulare assieme agli studenti, e il quale perciò, anche in questo caso, si è rivelato così importante che spesso si è dovuto “rompere lo spazio” in cui si era chiusi (o, appunto, trasformarlo) per poter vedere e capire: la pagina allora è divenuta una tela su cui disegnare, o si è frantumata in tanti cartigli da ricomporre, o si è dissolta nel canto, o si è fatta addirittura corpo in una danza, o è diventato un vero e proprio progetto tridimensionale che desse espressione a uno spazio ideale di reclusione, per sognare una quotidianità meno opprimente (https://stepscpia1rm.blogspot.com/2019/09/come-raccogliere-le-storie-individuali.html e https://stepscpia1rm.blogspot.com/2019/09/storie-primi-passi.html).

Abbiamo anche scoperto che se da una parte quasi tutti i detenuti sentono il bisogno di raccontare la propria storia, dall’altra non tutti i docenti capiscono che il modo più semplice per conoscere una storia sia, banalmente, ascoltarla. O, meglio, saperla ascoltare.

Non sempre è infatti necessario domandare, perché molte volte è l’altro a “lasciar cadere delle cose di sé, le sue confidenze” – cito – “nei vuoti di una lezione”, aspettandosi che sia il docente a “chinarsi” per raccoglierle. Altre volte, invece, capita che il docente non voglia ascoltare le storie dei detenuti, quantomeno non all’inizio del percorso scolastico: non per timore o, peggio, per indifferenza, ma come garanzia di spontaneità nei rapporti con essi, e per poterli accogliere e accettare in tutta la complessità che definisce ogni individuo, senza ridurli semplicisticamente al motivo del loro essere lì. Nessuno di noi è mai uguale a se stesso, perché tutti noi siamo un fascio di reazioni all’ambiente, alle persone e alle situazioni in cui ci ritroviamo a vivere: identità non è sinonimo di identico, e questa è un’altra lezione di cui qualcuno di noi ha avuto una decisa conferma grazie a questa esperienza.

L’esperienza è anche servita ad alcuni per superare certi pregiudizi, personali e non. Uno, ad esempio, riguarda l’oggetto stesso del progetto STEPs: cosa c’è di più autoreferenziale e angusto che far parlare di carcere e di reato a chi è rinchiuso in un carcere? Non è forse un’operazione che, tra l’altro, imprigiona una seconda volta il soggetto, all’interno dei limiti sempre inadeguati di una sola categoria? Non se la narrazione è lasciata aperta a ogni tipo di suggestione, ricordo e confidenza – da qui è arrivata la smentita –, ed è guidata attraverso modalità trasversali e indirette capaci di stimolare e ascoltare questa apertura.

Qualcuno, inizialmente riluttante all’idea di dover entrare nelle pieghe più personali della vita e della storia altrui, quasi per timore di profanarle, ha finito per scoprire e accettare il desiderio diffuso tra i detenuti di aprirsi e di raccontare di sé più o meno profondamente, più o meno sinceramente. Poco importa, del resto, se il racconto ascoltato fosse vero o verosimile: ciò che interessa è la storia della persona (sua e di sé), la sua rappresentazione della realtà, la “verità finta” che ognuno costruisce o co-costruisce assieme al docente in un lavoro di scrittura condivisa, da cui spesso scaturiva del tutto spontaneamente la domanda su di sé che innescava una nuova presa di coscienza.

Chi poi ha avuto l’opportunità di lavorare sia nelle sezioni femminili sia in quelle maschili ha potuto riflettere, a volte ricalibrandola, su un’altra opinione piuttosto comune, secondo la quale nel primo reparto il carico di sofferenza e di fragilità è maggiore che non nel secondo. Più di un/una collega ha ammesso di non aver riscontrato questa differenza se non come mero artificio delle apparenze. In carcere la debolezza è tale che le fragilità emergono in tutti: a cambiare, semmai, è solo il coraggio di confessarle.

Tanti, infine, sono gli aneddoti che ciascuno di noi ha collezionato durante la sua esperienza con questa attività: dal biglietto di auguri simpaticamente sgrammaticato ricevuto per Natale (ma quanti progressi dietro a quegli errori, commessi da chi fino a poco prima non sapeva nemmeno scrivere!); alla lezione sulle serrature più difficili da scassinare, offerta per ricambiare l’attenzione ricevuta per il proprio passato e per la propria storia; alle lettere d’amore scritte con distaccata complicità assieme a chi chiedeva qualche bella parola in soccorso a un sentimento comunque sincero.

Aneddoti che, al di là del sorriso che possono strappare, o del ricordo che imprimono, nascondono ognuno una di quelle lezioni che il lavoro in carcere non smette mai di impartire. Del resto, ha sapientemente osservato una collega, lavorare con i carcerati ti abitua all’aneddoto – divertente, imbarazzante o spiazzante che sia –; ma non ti abituerà mai alle loro storie.

Volendo dunque ricavare da tutte queste considerazioni un bilancio generale, i risultati sono più che gratificanti. Nata dalla volontà di dare una dimensione europea alle attività dei CPIA, promuovendo in tal senso un dialogo con altre realtà di istruzione per adulti di altri Paesi, l’adesione al progetto STEPs ha stimolato la ricerca di innovazioni nella didattica nelle carceri e nei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti; ha consentito la raccolta di storie personali e paradigmatiche al tempo stesso; e ha dato infine vita a un gruppo che è cresciuto in virtù del suo stesso modus operandi, trovando cioè la propria identità e la propria originalità nel processo di autoformazione tra pari sviluppato tramite un confronto continuo e una riflessione costante.

 

 

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